Beatrice Rana suona Bach


Quando - non più tardi della settimana scorsa - ho avuto tra le mani il CD delle Variazioni Goldberg suonate da Beatrice Rana ho fatto quello che di solito faccio con ogni nuovo disco: ho dato uno sguardo al libretto allegato. Nell'interessantissimo scritto a firma della stessa pianista contenuto nel libretto medesimo (per inciso: questa ragazza non solo suona come suona ma scrive in maniera deliziosa. In un momento storico nel quale la maggior parte dei suoi coetanei annaspa penosamente con l'ortografia, già questo è un piccolo miracolo) ho trovato questa frase: "così come l’umanità necessità della spiritualità, anche la spiritualità
ha bisogno dell’umanità". Ora, io sono uno che - parafrasando qualcuno di infame memoria - "quando sente la parola spirituale mette mano alla pistola", sicché non posso negare che una piccola alzata di sopracciglio l'ho avuta. In realtà, e questo l'ho capito man mano che procedevo negli ascolti, nel caso di specie avrei fatto probabilmente meglio a invertire l'ordine dei fattori: prima ascoltare e poi leggere.

Le Goldberg suonate da Beatrice Rana non sono il metafisico viaggio iniziatico fra abissi e vette della versione di Gould del 1982; non sono neanche il severo edificio luterano di Gustav Leonhardt nel 1965. Da questa lettura promanano invece un calore, un'affettuosità, una umanità - per l'appunto - a mia conoscenza finora inattinte, quasi che la pianista avesse fatte proprie le parole che Beethoven mise in esergo a un altro sommo monumento musicale, la Missa Solemnis: Von Herzen — Möge es wieder — Zu Herzen gehn! (dal cuore - possa nuovamente - andare al cuore).

In questa incisione l'esecutrice sceglie - come ormai oggi è consuetudine - di eseguire tutti i ritornelli indicati da Bach. Questa decisione pone all'interprete il problema di come evitare la monotonia che sarebbe inevitabile limitandosi a risuonare da capo nota per nota. La strada seguita da molti (penso ad esempio alla fenomenale esecuzione di Ottavio Dantone al clavicembalo o a quella di Alexandre Tharaud al pianoforte) consiste nel variare la linea melodica arricchendola con ornamentazioni di ogni genere. Beatrice Rana è da questo punto di vista molto più discreta, ma sceglie una soluzione alternativa molto interessante perché molto pianistica: sfrutta due elementi (la possibilità di graduare le dinamiche e di variare l'articolazione fra staccato e legato) impossibili da realizzare al clavicembalo. Il risultato è di grande fascino e talvolta (penso ad esempio alla variazione X, Fughetta o alla XXII alla breve) è in grado di gettare una luce affatto nuova su musica che qualunque musicofilo pensa di conoscere ormai a menadito.

Molti altri elementi si potrebbero riferire ed approfondire, ma non credo si renda davvero giustizia a questa lettura cercando di vivisezionarne ogni nota e ogni pausa: come ebbe a scrivere Glenn Gould (inevitabile convitato di pietra in ogni discorso che abbia a tema le Goldberg) penso infatti che la fondamentale ambizione di quest'opera per quanto riguarda la variazione non vada cercata in una costruzione organica ma in una comunità di sentimento.

E con questo ritorniamo - circolarmente come la musica di cui stiamo parlando - all'umanità cui si faceva cenno all'inizio: è impossibile ascoltare questo disco senza lasciarsi contagiare dal clima di gioia sommessa, leopardianamente lieta e pensosa, che se ne irradia. Un clima che per certi versi (me ne rendo conto adesso, a cinquant'anni praticamente suonati) è la cifra stessa della giovinezza: e il fatto che questo clima si sia riuscito a distillarlo e a raccoglierlo nei bit di una registrazione digitale è ciò che al fondo rende per quanto mi riguarda questo disco tanto prezioso e speciale, è il vero regalo che questa giovane donna ci ha fatto e per il quale non possiamo che esserle profondamente riconoscenti.

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