Samarra, o della sfacciataggine dell'opulenza

Decorazione murale rinvenuta a Samarra
Nell'anno 221 dell'Egira (corrispondente all'836 d.C.) il califfo al-Mu'tasim, grande cultore di architettura, decise di lasciare Baghdad e fondare una nuova capitale. Il posto prescelto si trovava sulle rive del Tigri a un po' più di un centinaio di chilometri da Baghdad e alla città venne dato il nome di Surra Man Ra'a, ovvero Felice colui che la vede, che ben presto divenne semplicemente Samarra. La nuova capitale sorse splendida di moschee, giardini, palazzi, residenze ampie e finemente decorate per il califfo e tutta la sua corte. Certo lo spettacolo per chi ci arrivava avendo negli occhi la desolazione del deserto iracheno doveva essere indimenticabile e tale da giustificare in pieno il nome della città: e ciò sia per l'ampiezza della città (lunga una quarantina di km e larga tra i 4 e gli 8 km, circondata da pareti esterne fortificate spesse tre metri) sia soprattutto per il lusso sfrenato che contraddistingueva gli arredi urbani, dalle cupole dorate delle moschee ai portoni finemente intarsiati, alla leggerezza da ricamo delle pareti interne di molti edifici. Milleduecento anni dopo, di questa ricchezza è rimasto in situ relativamente poco: un impressionante minareto alto una cinquantina di metri e che si restringe con andamento a spirale man mano che sale sul modello delle ziqqurat sumere e assire, una parte delle imponenti mura esterne e poco altro: del rimanente, qualcosa è disperso nei musei di mezzo mondo qualcos'altro ha semplicemente ceduto alla furia divoratrice del tempo e della storia.

E' probabile che quando Gregory L. Pease ha creato la meravigliosa miscela che porta il nome della città mediorientale avesse in mente di ricreare proprio la sensazione di opulenza che accompagnava il visitatore della Samarra ai tempi del suo splendore: innanzitutto ha usato una tavolozza di tabacchi assai variegata, che comprende Virginia rossi, Virginia lemon, vari gradi di Orientali, Latakia cipriota e Perique. E poi ha usato al meglio le sue abilità di blender per armonizzare queste componenti in una summa ricchissima ma al tempo stesso estremamente armonica.

Il sound di questa miscela non è quello rarefatto di un trio jazz, ma quello robusto e al tempo stesso setoso di una big band al gran completo. E' un tabacco che colpisce straight in your face già da spento: sentori di cuoio, di spezie, di frutta secca, di lieviti, di erba. E tutte queste componenti le ritroviamo ad accavallarsi senza mai interferire anche nel gusto, che parte con un'autentica esplosione di sapori e poi lascia spazio (davvero come nel più classico Ellington) agli assolo degli orientali e dei Virginia, col Latakia che lascia sentire i pizzicati del suo basso e il Perique che ogni tanto sbuca a segnalare e sottolineare i cambi nell'armonia.

Fumare questa miscela significa partire per un viaggio in cui ogni tappa, ogni boccata è - o quantomeno potrebbe essere - diversa da tutte quelle che l'hanno preceduta e la seguiranno. Un coloratissimo caleidoscopio in cui ci si perde più che volentieri.


Un capolavoro di Tiziano: la Danae del Museo di Capodimonte
Come tutti i tabacchi di qualità, anche questo può essere lasciato invecchiare: gli esiti del  confronto fra una latta "fresca" e una che aveva alle spalle quattro anni di cambusa mi ha richiamato alla mente l'evoluzione della pittura di Tiziano, dall'Amor sacro ed amor profano del 1514 alla Danae di Capodimonte del 1545, dalla incisività del disegno del pittore giovane alla sontuosa luce dorata della produzione più matura. Sono due esperienze diverse e solo il gusto personale può decidere (ma è poi necessario?) a quale dare la preferenza.

Gran tabacco esibizionista e spudorato, il Samarra. Certo, la sua opulenza è destinata a dissolversi in fumo. Ma in fondo è la stessa sorte che è capitata alla città da cui ha mutuato il nome; solo la scala dei tempi è stata diversa.



Un capolavoro di G.L. Pease: il Samarra

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