Shostakovich in Brooklyn

Mi piace molto vedere film. Ma forse più ancora che vedere, mi piace rivedere film. Durante le prime volte in cui si riguarda un film già visto l'esperienza è simile a quando si riascolta un brano musicale: si comincia a percepire meglio la struttura d'insieme, i pezzi vanno al proprio posto, si colgono richiami e corrispondenze che magari la prima volta erano sfuggiti. Rivedere un film che si è già visto molte volte - invece - è credo l'esperienza più simile a quella che fa ogni bambino di due o tre anni quando stressa i genitori perchè gli raccontino ancora una volta la stessa favola: la rassicurazione che viene dalla ripetizione, dal prevedere ogni situazione, ogni parola.

Eppure nonostante questo mio amore per i film rivisti, ad oggi c'è un solo film che io abbia rivisto due volte al cinema: Smoke, un film del 1995 diretto a quattro mani da Wayne Wang e Paul Auster. Entrambe le volte è stato a Roma, al cinema Intrastevere. E' un film che assolve in maniera quintessenziale al compito primario del cinema, quello di raccontare storie. E nello stesso tempo trasmette una serie di messaggi (primo fra tutti quello della necessità di riappropriarsi della propria esistenza) che trovarono all'epoca una risonanza in me che non sapevo spiegarmi fino in fondo, e che oggi - con la maggiore autoconsapevolezza che è uno dei pochi effetti positivi del passare del tempo - so che toccavano pezzi di me stesso dotati di radici molto profonde. E poi diciamocelo: vedere una produzione USA di metà degli anni '90 (all'epoca la paranoia antifumo non aveva raggiunto forse le vette che avrebbe raggiunto in seguito ma era comunque già in forma ruggente) in cui praticamente tutti i personaggi fumano, fumano  molto e fumano con gusto era, è qualcosa di decisamente liberatorio.

Non starò qui a riassumere la trama del film fatta di una serie di storie che si intrecciano e si intersecano (e questo intersecarsi è a sua volta una storia) ma stasera mi è tornata alla mente una scena in particolare che è quella che mostro qua sotto: quella in cui il tabaccaio Auggie Wren (una maiuscola interpretazione di Harvey Keitel) mostra allo scrittore Paul Benjamin (William Hurt) il progetto della sua vita:





Ricordo che quando vidi il film per la prima volta rimasi catturato, oltre che dal flusso delle foto, dalla musica di sottofondo. Non sapevo cosa fosse ma la trovavo bellissima. Concentrandomi sul suono mi parve di riconoscere il tocco al tempo stesso lieve e sontuoso di Keith Jarrett e cominciai a rimunginare su cosa stesse suonando. Jazz no, era evidente. Pareva una fuga, ma il linguaggio armonico escludeva decisamente Bach. Poi mi ricordai che qualche tempo prima ECM aveva pubblicato il doppio cd con Jarrett che suonava i 24 preludi e fughe dell'op. 87 di Dmitri Shostakovich. Annotai mentalmente di verificare la cosa e - trattenendomi pazientemente durante tutti i titoli di coda del film - scoprii che avevo ragione: era Jarrett che suonava Shostakovich.

E in particolare, il pezzo usato nel film era la prima fuga, quella in do maggiore.

Ad essere sincero, le prove di Jarrett come musicista classico non mi hanno mai convinto del tutto. Ho sempre avuto la sensazione che alle prese con un certo repertorio Jarrett sia come intimidito; non saprei dire se è un fatto di timore intellettuale oppure più pedestremente la tremarella di un pianista che affronta un repertorio di cui non è sicuro di padroneggiare la tecnica, ma la mia sensazione è quella. E un Jarrett prudente smette di essere Jarrett, per quanto mi riguarda.
Ma l'op. 87 di Shostakovich costituisce una felice eccezione: qui Jarrett non teme di confrontarsi con la pagina scritta vorrei dire da pari a pari, si ricorda di essere l'immenso musicista che è e ci regala alcune perle interpretative che a mio modo di vedere rimangono insuperate.

Il primo preludio e fuga è secondo me proprio uno di questi casi.

Tatiana Nikolayeva, interprete che in queste pagine è di un'autorevolezza somma (non foss'altro per essere stata la dedicataria della raccolta) lo interpreta come si può sentire qui sotto:


Il preludio è staccato a un tempo abbastanza moderato, in alcuni punti risulta anche pesante, mentre la fuga è decisamente più rapida. E' un'esecuzione splendida, in cui le linee contrappuntistiche vengono fuori con abbacinante chiarezza. Il dato aridamente numerico ci dice che nella versione Nikolayeva il preludio dura 2'30'' e la fuga 2'42''.


Jarrett ribalta completamente l'approccio: il preludio è leggermente più rapido (2'16'') ma è la fuga ad essere enormemente più lenta: 5'50'', poco meno del doppio della Nikolayeva:



L'effetto: certo, il contrappunto è meno rilevato. Ma suonata così lenta questa fuga acquista una dimensione metafisica che la versione Nikolayeva non ci fa neanche sospettare. L'immagine che mi richiama alla mente è quella di un gruppo di persone viste camminare in lontananza, immerse in un paesaggio completamente innevato. E' davvero la sospensione del tempo, sembra di rileggere l'inizio del primo dei Four Quartets di T.S. Eliot:


Time present and time past
Are both perhaps present in time future
And time future contained in time past.
If all time is eternally present
All time is unredeemable.

E insomma: di certo Shostakovich mai si sarebbe sognato che sulla sua musica sarebbero scorse una serie di foto in bianco e nero dentro un film americano. E che forse in questo modo sarebbero venuti fuori orizzonti di senso che magari lui stesso non aveva immaginato. 
Ma a me piace pensare che in fondo non ne sarebbe stato dispiaciuto.





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